Giancarla Codrignani
Ci sono dati delle agenzie internazionali che definiscono negativamente la scuola italiana. Mi rendo conto di usarne argomentando in modo schematico, ma non posso non far riferimento a due elementi di analisi a mio avviso necessari: da un lato, sono "questi" nostri insegnanti che - non tutti ovviamente, ma almeno gran parte - tengono in piedi bene la scuola; dall'altro, non si deve trascurare il contesto delle negatività crescenti, se è vero che sono cresciuti nell'ultimo anno gli abbandoni nelle superiori e, nel meridione, un ragazzo su quattro non completa l'obbligo.
Un partito "nuovo" come il PD non può non partire (e, data l'imponenza e l'urgenza avrebbe dovuto farlo in forma molto più diffusa e penetrante) dalla politica "sulla" e "nella" scuola. L'educazione e la preparazione delle generazioni infatti coinvolge tutti: i giovani in prima persona che su ciò che li riguarda da vicino fanno l'apprendistato politico e di vita sociale; i genitori, i nonni e tutti quelli che non hanno giovani attorno perché sanno ormai bene che la vita si gioca sul sapere. Non è una questione di diritti generici: se i ragazzi che frequentano le scuole delle riforme Gelmini/Tremonti non avranno la preparazione necessaria (e non l'avranno per l'aumento del numero degli studenti per classe, la diminuzione di orari e materie, l'impoverimento delle scuole impossibilitate ad assumere supplenti e insegnanti per materie integrative), si perderà una generazione (intendendo oggi per "generazione" il quinquennio scolastico delle superiori). Gli studenti che usciranno nel 2015 potranno andare a lavorare nei call-center dell'India: il danno è, dunque, già un dato di realtà.
Lo "smantellamento" sta avvenendo. E, per giunta, avviene in un contesto di trasformazione profonda delle società in cui, accanto alla globalizzazione economica, è mancata la globalizzazione culturale. Sono già evidenti le conseguenze derivate dall'urto tra il cedimento di sistema che per ragioni di comodo diciamo tradizionale e una realtà ancora senza rinnovati parametri valoriali. Assistiamo a trasformazioni che sono già antropologiche e che noi semplifichiamo nel normale conflitto generazionale. Neppure noi politici riusciamo a progettare in concreto quella società della conoscenza a cui per primi aspiriamo (sempre che la sclerosi burocratica ci permetta di pensarla).
L'elemento più importante, proprio perché non ci sono bacchette magiche per rimediare i disastri della situazione presente, è non inchiodarsi sulla polemica contro la riforma Gelmini. Occorre anche riprendere e attivare in direzioni innovative il concetto di "libertà dell'insegnamento". Ricordiamo che in epoca fascista la libertà dell'insegnante fu condizionata, ma non cancellata dalle norme. Oggi la democrazia dovrebbe favorire l'autonomia del docente proprio nel suo rapporto con la struttura-scuola, con le discipline, con i programmi ministeriali. Se "la Gelmini passerà" nell'applicazione distruttiva, non sarà soltanto per la riduzione del numero degli insegnanti e delle ore di scuola, ma per la passività della ricezione di questa (come di ogni altra) riforma. Proprio la previsione delle trasformazioni culturali necessarie per aprirci a un futuro ancora imprevedibile ha bisogno del massimo di creatività nell'organizzare il sapere. L'adozione delle nuove tecnologie non può essere una meccanica che implementa le capacità digitatorie di ragazzi e bambini solitamente già addestrati, oppure legittima ricerche finalizzate alla banalità del copia/incolla. Si tratta piuttosto di consegnare al mezzo (cioè alla ricerca dello studente) la parte nozionistica e trasformare le interrogazioni in discussioni critiche sui dati che rendono indispensabili le nazioni, ma solo per argomentare ragioni e alimentare idee. Siamo sempre al detto retorico di Plutarco dei giovani che sono fiaccole da accendere e non sacchi da riempire: anche con meno materiale pesante si possono accendere fuochi. Mi sono soffermata su queste banalità perché ricordo bene l'utilità di riviste non cultural-generiche, ma "di scuola", pedagogiche e didattiche, oggi forse troppo costose, ma certo riproducibili per e-mail e internet; e dei convegni di aggiornamento e di provocazione che erano pane quotidiano della sinistra in epoca di cultura democrastiana: a Bologna - in un tempo che oggi sembra felice ma che non può essere riprodotto senza i cambiamenti propri di una realtà assolutamente più complessa - ogni anno si ripeteva il "febbraio pedagogico", una "fiera" di teorie e pratiche che si confrontavano in sessioni che non è esagerato definire entusiasmanti. Quando si abbandonarono per la scomparsa di gente come Gianni Rodari e per inerzia delle amministrazioni che dovevano innovare e non abbandonare, la perdita fu rilevante anche per l'autoformazione che avveniva nel dialogo. Anche oggi la scuola - intesa come i suoi insegnanti - ha bisogno di parlarsi, di ragionare di metodi, di scienze e saperi in continuo rinnovamento. Le città stesse - intese come i cittadini - hanno bisogno di confrontarsi con i luoghi della divisione del sapere, per interagire nei processi che accompagnano la crescita di nuove generazioni. Assistiamo già al formarsi di mutamenti del costume che stanno diventando antropologici: i modelli sociali di riferimento sono quelli proposti dalle televisioni e urgono misure critiche che, quanto meno, prevedano i possibili sbocchi, positivi e negativi, degli stessi stili di vita. Insomma, mentre il ministero sembra impoverire i diritti dei giovani e della cultura, bisognerebbe arricchire il contributo inventivo senza abbandonare chi insegna alle scelte individuali. E' responsabilità politica conoscere e guidare l'apertura al futuro delle nuove generazioni.
Sempre nell'idea di campionare i problemi, dovremmo dare nuova forma al tradizionale riconoscimento dell'insegnamento della religione cattolica, superando la diffidenza anticlericale e il contestuale consenso a finanziamenti e intese delle istituzioni religiose. Oggi anche le chiese alzano il prezzo delle benedizioni - che impartiscono in forma laicista (cioè senza ragioni di fede) senza rendersi conto di contribuire al proprio danno - perché hanno paura del futuro. Per questo è più che mai necessaria l'adozione della laicità come metodo costruttivo dell'apprendimento non ideologico, per non aiutare la conservazione a rendere ideologiche o vacuamente consolatorie le religioni, non solo cristiane. Che restano un fatto culturale non indifferente.
Da tempo, anche nel PD, qualcuno sollecita a ritenere che la cultura è la forma prioritaria dell'innovazione politica. Il sapere è sempre educazione di libertà. E' anche educazione di giustizia e democrazia se diventa quella politica che è il termine corretto di assunzione consapevole della dignità umana, fatta di un'uguaglianza che riconosce - come insegnano le donne - le differenze. E', insomma, più complessa e difficile, ma necessaria per "fare partito".